sabato 28 aprile 2012

Beirut Hotel


Proposto nel corso del Film Middle East Now a Firenze Beirut Hotel terzo lungometraggio della regista libanese Danielle Arbid presente al cinema Odeon per introdurre la proiezione.


 Produzione televisiva del network Artè la storia si sviluppa attorno ai sentimenti della paura e della paranoia, che, racconta Danielle Abrid, caratterizzano questo momento storico in Libano: «In questa storia la paura ha senza dubbio un duplice significato: paura di amare e di confrontarsi con qualcuno di molto distante, ma anche paura per la situazione politica che io definisco, anche nel film, come potenzialmente “vulcanica”.
Cerco di dare a tutti i miei film una componente fortemente realistica, di rappresentare cioè quello che io vedo e Beirut Hotel in particolare è il mio sguardo sulla città.»

Danielle Abrid


In un locale notturno di Beirut si incontrano Zorha (Darine Hamze), una cantane di piano bar separata dal marito, e Mathieu (Charles Berling) maturo avvocato francese di passaggio in Libano per concludere un affare per una società di telecomunicazioni. I due intrecciano una relazione che sembra andare al di là di un incontro occasionale.





Mathieu, che sta divorziando dalla moglie con la quale ha un figlio di 5 anni, riceve la visita di Abbas, un vecchio amico e collaboratore che gli chiede aiuto per essere messo in contatto col governo francese dal quale vuole ottenere asilo politico in cambio in informazioni. L’uomo si trova suo malgrado coinvolto in un affare politico riguardante alte sfere dei servizi segreti libanesi che si mettono sulle sue tracce spiandolo e seguendolo, facendolo sentire in trappola.
Beirut Hotel si rivela un brillante film in bilico tra romanticismo e spionaggio che coglie in pieno la situazione di precarietà emotiva, sentimentale e politica della città e di coloro che vi abitano o che semplicemente ne sono ospiti timorosi ma sedotti.
 La relazione fra Mathieu e Zorha, carnale, torrida è uno struggente contrappunto al fascino di Beirut, la città in cui tutti hanno paura come se fossero seduti sull’orlo di un vulcano, fotografata nei suoi numerosi volti: dagli eleganti locali notturni dalle architetture moderne, ai quartieri popolari, dalle stanze d’albergo agli interni dell case borghesi.




Terminata la proiezione Danielle Arbid ha condiviso con il pubblico dell’Odeon il racconto dei gravi problemi legati alla censura che in Libano hanno vietato la circolazione di Hotel Beirut e che la hanno spinta a tentare una causa legale: «Mi avevano imposto di eliminare delle scene parti integranti della narrazione e senza le quali il film non avrebbe avuto senso, e paradossalmente erano tutte sequenze che riguardavano la parte politica del plot e non le scene di sesso. Ho rifiutato la censura e ho avviato una causa. È la prima volta che un regista in Libano compie una scelta del genere, la sentenza sarà espressa tra un anno.»
A proposito di come la città di Beirut è percepita e vissuta: «La guerra non è mai completamente finita, permane una sensazione di guerra fredda che certamente non impedisce di godersi una bella serata o una vacanza, ma che fa avere costantemente paura, ed è la stessa paura che provo anche io ogni volta che torno in Libano. La mia è una terra nella quale esiste una sorta di bipolarità nei suoi abitanti: c’è che guarda verso la Siria e chi invece si vuole avvicinare agli Stati Uniti.
Beirut Hotel ha suscitato reazioni sicuramente contrastanti. Dopo il passaggio su Artè, il network che lo ha prodotto, è stato erroneamente considerato come fortemente provocatorio, quando la provocazione era davvero l’ultima delle mie intenzioni nella realizzazione.»
Sulla figura di Zorha, perfetto simbolo di giovane donna mediorientale moderna che adotta un abbigliamento che celebra la sua femminilità, lavora col suo talento e la sua bellezza e vive l’amore e la sessualità in modo libero, Arbid precisa: «In realtà Zorha è una ragazza come ce ne sono tante in Libano. In Europa si tende ad avere un’idea un po’ falsata sulla condizione delle donne libanesi, che in realtà sono molto libere ed emancipate. Il divorzio, ad esempio è possibile dagli anni 70 ed è una realtà piuttosto diffusa.




Il mio cinema non si nutre mai completamente di finzione. Beirut Hotel è sì una fiction ma racconta però la situazione reale del Libano oggi, queste atmosfere contradditorie sono la realtà.»

lunedì 23 aprile 2012

Bel Ami

George Duroy dopo due anni come soldato in Algeria si trova a Parigi senza soldi, senza amici e con uno squallido impiego alle Ferrovie che non gli permette nemmeno di cenare tutti i giorni. Un incontro casuale con un suo vecchio compagno d'armi lo introduce nell'ambiente raffinato, ma pieno di intrighi del giornalismo di costume. George, apprezzato molto dalle donne, ma dileggiato dai suoi colleghi per la sua scarsa abilità di giornalista riesce, non senza fatica, a farsi strada senza scrupoli e mosso dalla certezza della sua predestinazione ad una carriera sfolgorante e ancor di più ad una grande ricchezza.



Esordio alla regia cinematografica per Declan Donneland e Nic Ormerod, Bel Ami realizzato nel 2010 esce adesso nelle sale, secondo i detrattori della saga di Twilight come intrattenimento per le fans di Robert Pattinson, tra il primo episodio di Breaking Down e il secondo, nei cinema il prossimo autunno che segnerà la fine della serie delle pellicole realizzate dal ciclo dei romanzi sui vampiri di Stephenie Meyer. Se fosse vero, e dal punto di vista del marketing sembra  molto probabile, forse il primo ad accorgersene a trarne vantaggio è proprio lo stesso Robert Pattinson.



 Il 26enne attore inglese, che dopo Harry Potter, The airman hunted, Twilight e Come l'acqua per gli elefantiè coinvolto in una ulteriore trasposizione cinematografica da un romanzo di successo, in occasione della prima del film al Festival di Berlino si è detto felice di poter finalmente contare su un pubblico più vasto e si auspicava che i lettori di Twilight fossero tentati di andare a vedere Bel Ami.

La trama del romanzo di Guy de Maupassant pubblicato nel 1885 è ridotta in sofisticati quadretti o intermezzi prevalemtemente filmati in ambienti interni borghesi, e risulta nel complesso piacevole, mancando però dell'afflato di altre fortunate trasposizioni cinematografiche in costume come L'età dell'innocenza, Le relazioni pericolose, Ritratto di Signora.
Tra i personaggi si distingue Christina Ricci, sempre più irriconoscibile, nel ruolo di Clotilde Marelle, la prima fra le donne che si trovano a soccombere al fascino di George; un personaggio che se nel romanzo viene definito "naturalmente audace" nel film sembra piuttosto acerba ma al contempo materna.



Uma Turman è invece una Madeleine Forestier piuttosto aderente all'originale anche se forse un po' troppo matura, ancorché astuta determinata e maliziosa.




Robert Pattinson nella sua stolida avvenenza si rivela il volto e il corpo perfetti per animare George Duroy il cui sguardo perennemente frustrato e desideroso di riscatto non può non ricordare quello affamato di sangue del suo più celebre ruolo.




Di tutte le donne da lui conquistate e sedotte, fra le quali c'è anche la sventurata Virginie (Kristin Scott Thomas), la più agè fra le amanti di George, Clotilde "la licenziosa" del romanzo di Maupassant, con il suo nuovo profilo romantico regalatole dallo schermo, sembra essere la compagna ideale per Bel Ami, che, anche se troppo preso dalla sua sempre più crescente avidità per apprezzarla, sa che su di lei potrà sempre contare.

Bel Ami risulta nel complesso ben confezionato e godibile e, a patto che non si sia troppo devoti a Maupassant, è piacevole lasciarsi coinvolgere dai sontuosi set decorati da Ana Lynch Robinson (In Bruges, An Education) e dalla bella colonna sonora firmata da Rachel Portman (Non lasciarmi, Le regole della casa del sidro).

A presto!

domenica 22 aprile 2012

L'Amour Fou


(Un mio articolo di esattamente un anno fa)

Presentato al cinema Odeon di Firenze, in collaborazione con Festival dei Popoli, Bim distribuzione e  la casa d’aste Christie’s, il documentario di Pierre Thoretton L’Amorur Fou che ripercorre la storia del grande amore tra il celebre stilista Yves Saint Laurent, scomparso nel giugno 2008 e l’industriale Pierre Bergé durato 50 anni.
La proiezione è stata introdotta da Stefania Ippoliti: «Questo film racconta la storia di un grande amore e di un incredibile talento, una storia piena di buon gusto e di amore per il bello e per le persone.»



«Sono contento che il film venga proiettato alla presenta di un pubblico così numeroso» ha proseguito Giorgio Bonsanti, presidente del Festival dei Popoli, rivolgendosi alla platea dell’Odeon al completo «ciò dimostra la varietà del pubblico che è affezionato al Festival dei Popoli che è tanto curioso di vedere un documentario sull’Amazzonia, come lo è di conoscere la vita e le passioni di una icona del mondo della moda come Yves Saint Laurent. Personalmente ciò che più mi ha colpito di questo film è stata la figura di Pierre Bergé, un personalità di grande interesse.»
Alessandra Mammi storica dell’arte e corrispondente per L’Espresso ha introdotto l’intervento di Maria Luisa Frisa, critica di moda: «È una straordinaria opportunità per voi che siete qui stasera poter vedere questo film, già presentato e accolto con entusiasmo  ai festival di Toronto e Roma, proiettato sul grande schermo. È un incredibile racconto dell’armonia fra le arti nel Novecento.»
«Yves Saint Laurent è stato un innovatore ed è, insieme a Coco Chanel e a Giorgio Armani uno dei grandi rivoluzionari della storia della moda. Braccio destro di Christian Dior, a soli 20 anni ottenne un grande successo con la sua prima sfilata. Era un creativo, ma al contempo, come spesso accade, una persona estremamente fragile. È lui che ha ideato il nude look e che ha vestito le donne con alcuni capi d’abbigliamento considerati prettamente maschili. È il designer che ha creato gli abiti per la vera donna moderna e intuendo che l’haute coture non era alla portata di chiunque ha fondato l’Yves Saint Laurent Rive Gauce. Ha sposato l’arte contemporanea con la moda realizzando le collezioni ispirate a Mondrian, alla Pop Art e a Picasso.





Nel 2002 ha dichiarato di essere stato per lungo tempo schiavo di droghe e alcool a causa della sua incapacità di essere felice a lungo, poiché schiacciato dal peso di dover essere creativo.



Questo splendido film è anche la preziosa opportunità di conoscere Pierre Bergé, colui che gli è stato accanto per tutta la vita, e di capire nel profondo il meccanismo di questa grande storia d’amore.»




L’Amour Fou è un raffinato viaggio nel mondo e nella vita di uno dei più grandi artisti del Novecento, oltre che la struggente storia del grande amore fra due uomini. Muovendosi su due binari: quello sentimentale dei ricordi, dei successi e degli eccessi raccontati dalla stessa voce di Pierre Bergé nella lunga intervista che si snoda per tutta la narrazione, e quello artistico con la storia della straordinaria collezione di oggetti d’arte Saint Laurant- Bergé che è stata venduta all’asta nel 2009 con un ricavato che è stato in parte devoluto alla ricerca per l’AIDS nella quale l’industriale francese è impegnato da molto tempo.



Dell’uomo Yves emerge il genio e la fragilità propri dell’enfant prodige che esordisce a soli 20 anni imponendosi come un vero e proprio fulmine a ciel sereno nel panorama della moda. 



Affetto da una timidezza patologica e sovrastato dall’enorme responsabilità di dover essere creativo non ha mai smesso di amare le donne e di mettere il suo incredibile talento al loro servizio per renderle sempre più consapevoli e sicure di se stesse. 



Sono corpi delle mannequin, che Saint Laurant definisce le sue eroine, e fra i quali spiccano due differenti modelli di femminilità e icone del nostro come Carla Bruni e Letitia Castà, che indossano le sue stupefacenti creazioni che dominano lo schermo nelle sequenze delle sfilate della maison dagli anni 60 a oggi




La maestosa bellezza delle dimore di Parigi, di Marrakech e dello chateau in Normandia nelle quali si ammira tutto ciò di cui queste due persone si sono circondate nella loro vita (le opere di Picasso, Matisse, Mondrian Andy Warhol) si svelano solo per brevi attimi per poi mostrarci il lo smantellamento in vista dell’asta da Christie’s mentre Pierre Bergé continua a raccontare la sua storia con Yves mostrato nelle foto e nei filmati dalla freschezza e dall’innocenza della gioventù al decadimento dopo gli abusi di droga, nel suo costante sforzo di essere nel contempo all’altezza del suo genio perseguendo l’obbiettivo di incontrare veramente se stesso. 






Emblematica la sequenza alla metà del film, immediatamente dopo il racconto fatto da Bergé degli anni più difficili dominati dagli eccessi più sfrenati, dello spot del profumo Opium realizzato nel 1985 che aveva come protagonista Linda Evangelista alla disperata ricerca di una nuova boccetta di fragranza in un quartiere orientale come una tossicomane in preda ad una crisi di astinenza che paga poi con una mazzetta di banconote ad una specie di pusher.



Un documentario di grande forza che non si pone in nessun modo come prodotto ad esclusivo consumo degli appassionati ma che piuttosto si affianca ad altri recenti esperimenti (The september Issue e Valentino The Last Emperor) come punto di partenza per indagare l’arte in una delle forme nel quale sempre meglio si esprime nel nostro secolo: la moda.

martedì 3 aprile 2012

L'arbre

Premessa: questo è un articolo che ho scritto davvero molto tempo fa per esercizio. Avevo visto questo splendido film e avevo sentito l'esigenza di scriverne. Lo stile quindi è acerbo e di quando in quando accorato, ma lo pubblico volentieri senza nessuna correzione su questo spazio che, al momento della stesura, non era ancora nato.



L'ARBRE di Julie Bertuccelli:
Dawn: Secondo te noi siamo una famiglia felice?
Tim: Le famiglie felici sono noiose.



Nel film di Richard Attenborogh del 1994 Viaggio in Inghilterra, Antony Hopkins nei panni dello scrittore C. S. Lewis diceva che noi leggiamo per sapere che non siamo soli; L'Arbre di Julie Bertuccelli ci insegna che non siamo soli.
Lo splendore dei sentimenti e della natura-

Un film sul dolore della perdita, sulla crescita e soprattutto uno struggente inno alla forza della vita e all'amore il bellissimo L'Arbre, seconda opera della regista italo-francese Julie Bertuccelli presentato nel corso di France Odeon 2010. In questa pellicola passata con successo fuori concorso al Festival di Cannes, la regista, già assistente alla regia di Otar Iosseliani, Krystof Kieslowski, Bertrand Tavernier ha messo in scena il romanzo di Judy Pascoe Our Father who art in the tree (Padre Nostro che sei nell'albero, Una favola vera, edito da Bompiani).



Una coppia vive in Australia con i figli, 3 maschi e una bambina, in una casa immersa in una natura lussureggiante. Il padre un giorno muore per un attacco cardiaco mentre riportava la figlia a casa e si va a schiantare proprio addosso allo splendido e gigantesco albero cresciuto praticamente a ridosso della casa. Da qui in avanti ognuno dei componenti del nucleo familiare cercherà di andare avanti trovando nuova motivazione nella perdita e talvolta stando insieme talvolta attraversando da soli questo percorso di rinascita, svilupperanno nuove sensibilità e nuove risorse imparando a conoscersi l'uno con l'altro sempre di più.
 Il film è davvero molto bello, e, come si dice in questi casi delicato. Produzione francese ambientata completamente in Australia prende le mosse da un progetto ambizioso ma da nessuno mai realizzato per problemi di diritti d'autore ovvero quello di girare un film tratto dal romanzo di Italo Calvino Il Barone Rampante. La storia scritta da Judy Pascoe offre comunque uno spunto interessante dal quale la regista è riuscita ad estrarre riflessioni di grande importanza e gravità. Il lutto è indagato nell'animo di chi è rimasto e deve continuare ad andare avanti, i rapporti familiari sono scandagliati senza retorica e da punti di vista del tutto inusuali, come quello della madre, interpretata dalla straordinaria Charlotte Gainsbourg, che comprende e forse rivive, osservando la figlia Simone e la sublimazione del suo dolore, l'amore totale di una bambina di 8 anni verso il padre, o del figlio adolescente che sviluppa una imprevedibile maturità ritrovatosi suo malgrado a ricoprire il ruolo del maschio adulto di casa.
Il paesaggio Australiano è egregiamente fotografato e inserito nel racconto, diviene parte di esso e della vita dei protagonisti, come l'albero  che diventa a tutti gli effetti personaggio e la natura  esuberante che entra di forza nella casa dei protagonisti e della quale essi non possono e non vogliono liberarsi



Un film che ci insegna qualcosa su di noi e sulla nostra reazione ai traumi che non è mai scontata e spesso ci sorprende. Rinascita, crescita e cambiamento che la luce abbagliante e gli sconfinati spazi dell'Australia fanno sembrare possibili; un futuro diverso nel quale, secondo la filosofia della piccola Simone, si può scegliere se essere tristi o felici. Una storia che ci offre uno spaccato lucido sulla vita interiore dei bambini, sulla loro vitalità e sulla loro ingenua scaltrezza nell'approccio alla vita e al dolore.